La Serbia è il paese con la più numerosa comunità rom dell’ex Jugoslavia, ma cosa vuol dire davvero essere un rom in questo paese? Secondo l’ultimo censimento, in Serbia ci sono circa 150mila rom, ma i numeri, in realtà, sono molto più alti: dichiararsi rom pubblicamente, infatti, ha delle conseguenze di carattere sociale. Molti preferiscono identificarsi come serbi, a volte per attaccamento a quello che è da generazioni il loro paese, più spesso per evitare di essere oggetto di discriminazioni che hanno radici antiche: i rom abitano in questa regione sin dall’epoca dell’imperatore Dusan (1300), ma fino a metà ‘800 i membri della comunità rom erano venduti e sfruttati come schiavi e a chi parlava il romanì veniva tagliata la lingua. Ancora oggi, il cammino verso l’integrazione è in salita: in Serbia solo il 9% della popolazione rom ha un lavoro fisso, solo il 30% termina la scuola elementare, circa 9% frequenta le medie mentre il solo 0,01 percento ha una educazione universitaria. Le discriminazioni iniziano sin dall’adolescenza, a scuola, da parte sia dei compagni di classe che degli istituti scolastici. La conseguenza è che le famiglie perdono fiducia nelle istituzioni e nella scuola stessa, non trovandola utile. Questo ha inevitabili ricadute nella successiva ricerca del lavoro, ancor più difficile senza titolo di studio. Nonostante esista una legge che impone ai datori di lavoro di non avere comportamenti discriminatori in fase di assunzione, questo divieto non viene di fatto rispettato ed è raro che i datori di lavoro assumano un rom.
Ogni anno, secondo una ricerca della Banca Mondiale, l’esclusione sociale e l’isolamento della comunità rom costa alla Serbia circa 50 milioni di euro. Eppure, se questo denaro venisse investito per migliorarne l’accesso all’educazione e al mondo del lavoro, questi soldi tornerebbero velocemente allo stato sotto forma di contributi.