Il gioco di parole, anzi di fonetica, è quello con l’inglese “house gang”: la gang di casa e il tedesco “ausgang”: uscita. Due concetti che suonano praticamente allo stesso modo, ma sono agli antipodi, sopratutto durante il periodo del lockdown, ma che, in questa vicenda, trovano un comune denominatore: ME.
Io, la mia gang di casa. Io, il mio accompagnatore durante quelle rare, agognate, brevi uscite.
Ma è anche vero che il dentro e il fuori erano intercambiabili. Le strade deserte, le case piene. Il giorno silenzioso come la notte. La notte più buia della notte stessa. Le finestre erano vie di fuga, sguardi su altri universi. I balconi, l’affaccio sul mondo, le vite degli altri, il tempo sospeso.
Confinati nel quotidiano, a prendere confidenza con le nostre case, i vicini, il quartiere, per sentirci estranei anche nei nostri panni. Stranieri nelle strade in cui siamo cresciuti, che forse abbiamo guardato per la prima volta perché ogni uscita era una conquista e gli occhi che portavamo con noi erano nuovi.
Eppure, quante volte avremmo voluto più tempo da passare a casa, più tempo da dedicare a noi stessi: ma che ci volevamo fare con tutto quel tempo? E quando l’abbiamo avuto, che cosa ci abbiamo fatto?